Crisi e avvenire del socialismo in Italia

«Mercurio», mensile di politica lettere arte scienze, Roma, a. IV, n. 30, febbraio 1947, pp. 15-20.

CRISI E AVVENIRE DEL SOCIALISMO IN ITALIA

L’imparzialità che si può richiedere a chi sente la cronaca sempre investita dall’impeto sistematore della storia e questa granulosa, a ben guardarvi, come la cronaca, appartiene, si sa, a quell’olimpo di parole e di convenzioni o, nel miglior caso, di calamite alle buone intenzioni che si oppongono all’oscuro erebo delle passioni. Ma è la serietà di un dramma che tutti ci coinvolge e in cui anche la piú misera comparsa ha dignità di attore, che viene ad inibire una baldanza, una compiacenza di polemica pur se chiaramente vi si possono vedere le ragioni di uno sdegno non solamente intellettuale. Sdegno che si nutre della persuasione per nulla antistorica che la grande carta del socialismo non fu neppure tentata in Italia dopo la liberazione e che essa presupponeva oltre le condizioni materiali e psicologiche di accettazione, la raggiunta chiarezza di uomini (i cosiddetti quadri, al centro e alla periferia) che al di là della base teorica – sentita come arma e non come armatura – sfuggissero ai due equivoci che chiaramente, anche se con diversa forza, snaturano le possibilità vitali del movimento socialista. Sono equivoci che hanno coinvolto idee, formazioni e che sarebbe ingenuo ridurre illuministicamente a pura negatività rispetto ad una verità in cui non cambi mai bianco né bruno; ma certo dalle posizioni intellettuali e dalle giustificazioni di strategia politica in grande stile alle minori impostazioni, ai piú scoperti termini di posizioni provinciali, un occhio attento sa scoprire nelle violente colorazioni di mozioni e tendenze due sostanziali deformazioni e un punto di disaccordo fondamentale su cui per la mancanza di una chiarificazione iniziale la crisi è cresciuta sino ad uno sbocco discutibile quanto si vuole nella sua morfologia, ma non certo arbitrario, inaspettato, capriccioso come qualcuno ha pensato riducendo tutto ad un’insipida vicenda di urti personali. Ed è da premettere per spiegare meglio anche le difficoltà del socialismo tra noi (e non solo tra noi), che nelle situazioni locali le idee diventano punti di cristallizzazione clientelistica e le deviazioni dalla vita socialista si deformano orribilmente, rivelano i loro lineamenti brutalmente come in un incubo di ingrandimento. Non è tanto il contrasto, chiarito da Renner, di socialismo amministratore e originatore o la purezza e confusioni, denunciata da Adler, di democrazia sociale e democrazia politica, quanto il contrasto fra un equivoco di socialismo tutto entro i limiti della società esistente, paternalistico, incapace di trasformazione strutturale e cieco al limite in cui un progresso di riforme dentro il sistema urterà contro il veto del sistema stesso, e quello di un rivoluzionarismo astratto e demandante la propria patente di validità alla vicinanza ad un platonico modello, ad un archetipo che poi viceversa già vivrebbe incarnato in un altro partito operaio. Non occorre tirare in discussione un possibile neointegralismo da contrapporre a metodi socialisti contrastanti, perché la situazione attuale era tale da imporre pacificamente una scelta nuova e il ripudio delle forme intransigenti di massimalismo e riformismo: ma il peso dei due equivoci si può tradurre corposamente e quasi per parabola in due dichiarazioni sia pure di valore non uguale per la loro diversa autorevolezza. Un sindaco socialista di una grossa città italiana faceva un giorno gli elogi di un industriale ex-repubblichino, filo-tedesco e filo-inglese, che sa dare ai suoi operai un trattamento di privilegi rispetto ai loro compagni di categoria e concludeva affermando che tali industriali erano «naturaliter» socialisti. Un uomo politico al centro rispondendo alle accuse di chi chiedeva un atteggiamento chiaro del partito in rapporto a problemi generali, rispondeva che non c’erano che due politiche da seguire: o comunista o democristiana.

Ebbene questi equivoci spiegano, per spaccato, la situazione morbosa del partito prima della sua crisi e l’insufficienza di uomini all’esigenza democratica e rivoluzionaria a cui il socialismo deve rispondere con uguale intensità unendo, secondo le parole di Laski, l’intelligenza e il coraggio in un’opera di autonoma trasformazione delle forze proletarie. Le impostazioni varie date al problema socialista urtarono in questi equivoci e, a parte che gli interessi dei singoli e di forze non socialiste, vennero creando quella tragica identificazione di sinistra misurata solo nella maggiore adesione (non vicinanza) possibile alla linea del P.C. e di autonomia sconfinante, per eccesso, in una pura esaltazione di valori essenziali al socialismo, ma non vive nella loro semplice entità ideale come la libertà. Equivoco che tragicamente velava alla grande massa dei militanti il discrimine del socialismo una volta che esso sia libero da tentazioni di destra e da una semplice azione di ritocco entro un sistema ed entro un mondo di economia capitalistica. E il momento discriminante è evidentemente – comunque si voglia toglierlo ai cieli della fantasia e della velleità, e adeguarlo alla realtà, alla «rugosa» realtà di cui parlava Vico – l’impostazione internazionale. Chi crede che sia impossibile un’azione socialista internazionale ed onestamente confida nel coordinamento di movimenti proletari con la politica dello Stato Sovietico sceglie evidentemente la linea internazionale comunista e deve operare in ogni caso coerentemente allo scopo di agevolare la causa proletaria identificata nella guida sovietica. E allora l’opera dei partiti socialisti diviene opera di accompagnamento e di riserva, non azione organica ed autonoma. D’altra parte chi pensa alla necessità di una linea socialista internazionale per l’emancipazione del proletariato e la trasformazione sociale e politica, deve inevitabilmente vedere anche i problemi (a cui nessun socialista può essere insensibile) dell’unità della classe lavoratrice alla luce di quella fondamentale esigenza, deciso d’altronde a non fare scadere la propria azione nei termini di un’altra internazionale di interessi contro cui il socialismo continuamente deve sentire il perché della sua stessa esistenza. Sí che per esempio il vago federalismo europeo che può celare il chiaro proposito della politica churchilliana, venga rifiutato decisamente: stati uniti d’Europa solo stati uniti di un’Europa socialista.

Sotto gli equivoci e l’appesantimento di un duello in cui spesso i combattenti si battevano nella nebbia, la crisi socialista ha dato i suoi frutti che solo la polemica può ridurre meschinamente o magnificare in maniera interessata o irriflessiva. Piuttosto che partecipare alle recriminazioni ed alle accuse a cui, chi si è dimesso dal vecchio partito ed è rimasto socialista indipendente, potrebbe facilmente portare il suo contributo, pare piú utile a questo punto vedere in concreto che cosa può essere fatto per l’avvenire del socialismo in Italia, che cosa si può presumere verrà fatto dai veri socialisti per la ricostruzione di uno strumento efficace, per la creazione non settaria di un organismo capace di corrispondere a quelle esigenze che stravolte, rese astratte, deteriorate e deformate dalla «guerra civile» hanno finito per accrescere e alimentare, dove piú dove meno, gli errori e gli equivoci cui accennavo all’inizio.

Se la crisi e la scissione non sono che l’apertura di un processo di chiarificazione e di costruzione, secondo l’idea già esposta da Silone sul n. 11 di «Europa Socialista», si deve pensare che a tale processo il P.S.I. cercherà di porre il piú possibile un freno, attivizzando i propri militanti in un’opera immediatamente pratica, distogliendoli da discussioni generali e d’altra parte allontanando il piú possibile il sospetto della fusione in cui piuttosto ingenuamente sperano alcuni uomini politici rimasti nel P.S.I. che in questa specie di assestamento caleidoscopico prevedono l’uscita di «Compiti nuovi» e il rinsaldamento immediato di P.S.I. e P.S.L.I. Ma se la fusione non sarà fatta, il P.S.I. si troverà molte volte nella difficile scelta o di non poter fare ciò per cui i suoi attuali dirigenti hanno lottato tenacemente – e cioè l’adesione effettiva alla linea politica comunista – o di far ciò mettendo in pericolo la compattezza interna con il pretesto a nuove scissioni. E d’altra parte nel suo partito i possibili pericoli di scivolamenti e di illegittimi avvicinamenti (naturalmente piú attribuiti polemicamente che attualmente provabili) sono continuamente sotto il naturale e sacrosanto ricatto delle forze piú vigili e piú importanti che in quel partito militano considerandolo giustamente organismo in divenire e non chiesa immutabile ed intangibile. Mentre fuor i dai due partiti ufficiali altre forze già appartenenti al P.S.I.U.P. o costituite in altre formazioni di indirizzo socialista possono e debbono partecipare a questo processo di riorganizzazione del socialismo in Italia con la freschezza che a loro deriva da esperienze recenti e dallo sforzo spregiudicato di allargare le ragioni del socialismo anche se radicate in ideologie non marxiste, ma a cui il marxismo ha pur dato i suoi principî essenziali. Ed è proprio in vista di un’opera vasta e di lunga portata che, oltre la possibilità che dalle posizioni autonome possano costituire il punto d’incontro di discussione dei due partiti fra i quali si deve ad ogni costo tenere aperto un dialogo che non sia solo di cattive parole, spetta a tali socialisti l’iniziativa di dare vita a un fronte socialista in cui forze di origine diversa, ma di comune destinazione, potranno collaborare senza snaturarsi od elidersi.

Un fronte che dal partito nuovo accogliesse azionisti, cristiano-sociali, gruppi di socialisti indipendenti e si aprisse non settariamente a tutte le forze autenticamente socialiste che nel P.S.I. giungeranno ad urto sicuro con i fusionisti, costituirebbe un allineamento capace di attrazione e di azione su di un piano pratico comune e senza gli scontri ideologici e le cristallizzazioni agonistiche di tendenze che importa la convivenza ad ogni costo in un partito, entro un unico apparato, prima di una maturazione, di una chiarificazione che non si ottengono solo per atto di volontà. La smania del partito grosso e viceversa quella del partito senza diversità ideologiche, ferreamente inquadrato (giustificabile nel metodo comunista), ha già portato i socialisti italiani a tristi esperienze, ad un’inazione mortale. Una formazione piú varia ed articolata può dare il risultato effettivo di un lavoro a cui molti si rifiuterebbero se svolto entro i limiti di una rigida ortodossia ideologica. Cosí mentre dei cristiano-sociali, o degli azionisti o dei libertari potrebbero trovarsi piú difficilmente a loro agio in un partito rigidamente marxista, l’unione su di un piano concreto di realizzazione e di lotta per un’Italia moderna, accanto alle forze comuniste ma con una propria fisionomia ben distinta da lineamenti internazionalisti, antimilitaristi, democratici, renderebbe attivi ed operanti i movimenti che fino ad ora sono rimasti fermi alla polemica o ad estenuanti fatiche elettorali superiori alle loro singole forze.

Mentre si inizia il lavoro di un governo che nasce sul presupposto di un programma e che questo programma non ha (e quindi con i germi peggiori di nuovi adattamenti e di nuove crisi), mentre l’Italia risente gli effetti tragici del proprio nazionalismo imperialistico che l’ha portata al 10 febbraio parigino e quelli di una politica delle grandi potenze che pare aver perso ogni fede nella solidarietà e nei principî su cui la pace può non nascondere il fremito continuo della morte in attesa, non c’è fenomeno piú importante e degno dell’attenzione e dell’impegno di quanti si sentono socialisti, di questa costruzione di una formazione che non debba essere ancora un’occasione perduta, una carta mal giocata al tavolo sempre piú tragico e livido della storia.

Invece del rancore e del risentimento che molti potrebbero avere per i sistemi che in questo doloroso momento vengono adottati contro dei socialisti, tutti quelli per cui il socialismo è qualcosa di insostituibile e di essenziale al mondo moderno (alla trasformazione sociale e alla destinazione della società rinnovata), tutti quelli che nel nuovo e nel vecchio partito hanno con lucidità e con decisione aderito a questa che noi, increduli di ogni mito, osiamo chiamare fede, possono compiere il lavoro in cui purtroppo non sono riusciti quando questo sarebbe riuscito piú facile, ma meno sofferto e provato. Un lavoro che deve rivolgersi ad un concreto piano, su cui possano venire richiamati quei lavoratori che intimamente fedeli alle idee socialiste sono in questo momento o sfiduciati o impegnati in una polemica di cui non conoscono i veri termini. Altri lavoratori tredici anni fa in un altro paese d’Europa, in questi giorni, mostrarono come un socialismo cosciente della sua forza e della sua altezza sa ispirare la costruzione di una vita civile e lotta generosa per le sue conquiste umane e, se non temessimo anche l’ombra della nemica di ogni misura di stile e di vita, vorremmo ricordare piú ampiamente e caldamente che nella data del 12 febbraio viennese i lavoratori italiani possono ricercare un simbolo corposo della validità del socialismo, né sogno utopistico né fredda pratica di ritocchi e di compromessi.